“PER UNA CULTURA DEL DIALOGO NEI PAESAGGI DELLA NOSTRA VITA”
L’Agosto di Sant’Andrea di Conza, da ormai 40 anni è caratterizzato dall’Estate Ricreativa e Culturale, tradizionale rassegna di eventi che, nell’intero territorio dell’Alta Irpinia, sa coniugare “Divertimento e Cultura” con rappresentazioni teatrali e musicali. Particolarmente interessante l’incontro con il prof. Ugo Morelli, professore di Scienze cognitive applicate alla vivibilità, al paesaggio e all’ambiente, di Psicologia del Lavoro e dell’organizzazione e di Psicologia della creatività e dell’innovazione – il 13 agosto – che ci invita a riflettere sul tema “Per una cultura del dialogo nei paesaggi della nostra vita”.
Perché il dialogo tra persone, tra culture, il dialogo tra le differenze è oggi così importante? E perché lo è non solo a livello macro, a livello globale ma lo è anche a livello micro per una comunità come quella di S.Andrea di Conza? Perché abbiamo bisogno, finalmente, di renderci conto che – detta con uno slogan – noi viviamo in un tempo che ci chiede di smettere di guardare il mondo dai luoghi e di sviluppare una capacità e una cultura che ci porta a guardare i luoghi dal mondo. Cosa vuol dire guardare i luoghi dal mondo? Vuol dire procurarsi degli occhi nuovi per guardare i fenomeni, perché nessun posto, neanche un posto piccolo che apparentemente sembrerebbe periferico, può oggi considerarsi isolato dal mondo. È necessario rovesciare il ragionamento: se, cioè, non fossimo capaci di guardare con gli occhi del mondo, significherebbe perdere in termini di ricchezza, di prospettiva, di possibilità. Cosa vuol dire oggi guardarsi con gli occhi del mondo? Vuol dire guardarsi alla luce della necessaria disposizione a dialogare tra le diverse culture che sono presenti sul pianeta terra. Vuol dire interrogarsi su quello che perdiamo se perdiamo il dialogo tra le culture, il dialogo tra le differenze. E ciò non va fatto per qualche ragione moralistica, bensì per renderci conto di quello che perdiamo se perdiamo il dialogo con le differenze: perdiamo il futuro! Alla stessa maniera con cui se non guardiamo i luoghi dal mondo con gli occhi della vivibilità, quindi con gli occhi della sostenibilità, con gli occhi che dovrebbero finalmente aprirsi di fronte alla crisi climatica, noi perdiamo il futuro. Queste cose: l’intercultura, il dialogo tra le culture differenti, e la crisi climatica sono sotto i nostri occhi. Allora la domanda è: “Perché non li vediamo? Perché questa resistenza al cambiamento, perché tendiamo a negare l’evidenza stessa.
Perché per S.Andrea è importante guardare le cose da questo punto di vista e che cosa può fare la cultura per aumentare la vivibilità? A prima vista potrebbe sembrare una cosa astratta, si potrebbe infatti dire che la vivibilità si aumenta con l’economia, con l’urbanistica, sicuramente fattori fondamentali, ma da sole non bastano. Possiamo avere queste risorse ma non riuscire a fecondarle con un atteggiamento mentale, con un atteggiamento culturale che ci faccia finalmente capire in che mondo viviamo, dovunque siamo, sia che siamo in un’enorme metropoli sia che siamo a S.Andrea. Perché, dunque, facciamo così resistenza a cambiare idea sull’intercultura e sulla vivibilità? Perché veniamo da una grande tradizione – abbiamo persino dei proverbi “chi lascia la via vecchia per la nuova sa quello che lascia ma non sa quello che trova”. Ci siamo mai chiesto da dove viene questo proverbio? Facciamo due esempi uno che viene dalla disciplina Scienze cognitive e Psicologia e un altro che viene dalla paleantropologia – la disciplina che studia la storia degli esseri umani nel corso del tempo. Partiamo prima dalla disciplina: un premio nobel pone questa domanda “Se voi proponete ad una persona di qualunque estrazione: avvocato, docente universitario, elettricista, barbiere, salumiere, la seguente domanda: “Scegli tra A e B, dove A è mantenere le abitudini e B è cambiare idee e comportamenti su qualsiasi cosa (il colore della camicia, il regime alimentare, la via che faccio per andare a lavoro), troveremo che per i 2/3 le persone scelgono A, anche quando mantenendo le abitudini è palesemente sconveniente, anche quando otterremo dei risultati non desiderabili. Perché siamo fatti così? Bisogna ricordarsi quello che eravamo non 2000 anni fa, neanche 5000 o 6000 anni fa, ma quello che eravamo prima dell’agricoltura e quindi prima dell’inizio della stanzialità: 12.000 anni fa eravamo nomadi, eravamo una specie esposta a tutte le intemperie e a tutti i predatori. Riconoscere l’impronta o l’odore di un predatore voleva dire essere vivi o morti, quindi consegnarsi alle abitudini è un’esigenza che abbiamo. Che cosa succede quando questo ricorrere alla routine non è adatta ad affrontare il problema? Esempio: supponiamo che io sia un pendolare che ogni mattina per lavorare devo andare a Lioni: da pendolare, percorro la strada con un atteggiamento routinario, ho i miei pensieri, naturalmente mentre guido sono concentrato. Va tutto bene, se quella mattina non ci fosse qualche differenza, ad esempio sul manto stradale potrebbe esserci del ghiaccio: in questo caso la routine non va più bene. Ebbene, noi viviamo un tempo in cui la forza delle abitudini non va più bene e facciamo una grande fatica a rendercene conto soprattutto su due questioni: una il dialogo con le altre culture, le altre civiltà, due la crisi climatico ambientale. E sapete come reagiamo? Di fronte a questi due temi ci poniamo con tre tipi di resistenza: la prima quella del “dopo di te”, la seconda “sindrome del Titanic”, la terza di tipo “generazionale”, quella cioè che ci porta a dire “Perché dovrei fare qualcosa per le generazioni future? Loro, forse, hanno fatto qualcosa per me?” Questa domanda la facciamo sia rispetto alle tematiche della vivibilità dell’ambiente sia rispetto all’intercultura.
Potremmo fare lo SPRAR – dice a un certo punto chi amministra un paese. “Ma perché dobbiamo farlo qui da noi, perché dobbiamo occuparci di persone che vengono da altre civiltà, da altre culture? Perché una civiltà del dialogo e non una civiltà del respingimento?
Questa è una questione molto seria, perché la domanda che dovremmo farci è “CHI È L’ALTRO?” Noi siamo stati abituati per educazione e per cultura a ragionare in questi termini: esiste prima l’IO poi esiste l’ALTRO e io posso stabilire con l’altro una relazione o non stabilire nulla. La relazione in questo momento è l’equivalente dell’interruttore della luce: posso accenderla o non accenderla o posso accenderla e spegnerla. La maggior parte di noi siamo stati formati così. All’Università testi di psicologia e di biologia psicologica parlavano in questi termini. La centratura era sull’IO, la relazione era attivabile o non attivabile. Le cose non stanno così! Noi siamo prima intersoggettivi e poi diventiamo soggetti ed è perché siamo intersoggettivi che diventiamo soggetti. Non è una questione morale ma prima di tutto biologico-scientifica
Uno studio realizzato all’Università di Padova ci ha permesso di osservare, attraverso l’ecografia, il comportamento di un feto. Essa ci mostra che, a partire dalla 14 settimana di gestazione, un feto sviluppa un’interazione con la madre, progressiva e sistematica. Al settimo mese quella interazione è talmente costante che diventa un’interazione col mondo non più solo con la madre, col mondo attraverso la madre naturalmente. Per fare una mente ce ne vogliono almeno due, e la mente umana è figlia delle relazioni. Noi siamo quello che siamo in ragione delle relazioni che viviamo. Tutto ciò è regolato da apparati cerebrali, dal sistema nervoso centrale. Ed è importante perché ci aiuta a capire che l’ALTRO siamo noi. L’altro non è esterno a noi, l’altro è interno a noi e risuona con noi sistematicamente come fonte della nostra individuazione. L’identità individuale è l’esito di una relazione e, quindi, la possibilità di arricchire la nostra identità dipende da una cosa sola: dal DIALOGO CON LE ALTRE IDENTITÀ. Questo smentisce ogni ragionamento che nega l’alterità con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti: il mediterraneo trasformato in un grande cimitero! E prendere consapevolezza di questo, prima ancora che un atto morale e politico, è un atto biologico scientifico. Allora la domanda potrebbe essere: “Perché, allora, esistono i pregiudizi e gli stereotipi? Perché tanta gente è contraria al dialogo tra culture?” Il problema non è il pregiudizio, perché il pregiudizio non è nient’altro che quello che viene prima del giudizio e, quindi, di fronte ad ogni cosa prima di conoscerla. Il problema è la conoscenza e per conoscere bisogna parlare, parlare non solo con chi è d’accordo con noi, il che sarebbe banale, ma con chi la pensa diversamente da noi. Noi abbiamo bisogno di farci carico di chi nega il valore del dialogo, perché abbiamo bisogno di comprendere come mai si struttura quel pregiudizio in un mondo che è un villaggio. Perché facciamo fatica a costruire una civiltà planetaria? Lo SPRAR di S.Andrea è un contributo a costruire una civiltà planetaria, ma per chi e per che cosa? Prima di tutto per i figli di S.Andrea di Conza perché con lo SPRAR S.Andrea sta costruendo una civiltà planetaria nella quale vivono e vivranno i nostri figli.
Il nostro problema è non volercene rendere conto: viviamo tutti già in un mondo interculturale. Chi sta operando contro questa prospettiva sta solo ritardando il tempo. La follia consiste nel ritardare ciò che è già in atto, favorendo integralismi di diversa natura. E questa è una responsabilità civile gravissima, perché ci opponiamo a ciò che c’è già. Così come ci opponiamo quando non vogliamo prendere atto della crisi climatico-ambientale e quindi non vogliamo cominciare finalmente con i comportamenti individuali, con i comportamenti collettivo e con le scelte politiche a fare sul serio, soprattutto perché perdiamo delle occasioni straordinarie. È necessario che sostenibilità e intercultura siano tra loro combinate. Solo una civiltà locale, vivace, capace di dialogo tra le persone, di dialogo con l’ambiente ha un futuro.